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“Uomo in salita” di Niccolò Bulanti, la mia recensione del libro

Recensione Uomo in salita | Un libro da leggere

Scritto da fra.cycloergosum

Cantastorie, storyteller, bikepacker e viaggiatore incallito. Folle ideatore del motto "Cyclo Ergo Sum" (pedalo quindi sono), frullatore impazzito in salita, sussurra spesso ai Mucchinyyy incitandoli a gettare al cielo Sulemanyyy.

25 Giugno 2024

“Uomo in salita” di Niccolò Bulanti e i suoi tentativi sulle erte di casa

Nella mia spasmodica ricerca di ispirazione e di colleghi e colleghe che vogliano raccontare delle proprie storie a pedali, sia per curiosità personale che per raccogliere i pensieri e i viaggi sulla collana di racconti Impronte – Storie a pedali, mi sono imbattuto in un’appassionante lettura di un altrettanto profondo viaggiatore.

Scalatore di salite, ma che a differenza di chi professa la religione del pannolato, non ama definirsi curidùr (come invece molti in paese lo chiamano), e nemmeno apprezza che io parli delle sue salite con il termine avventure. Un umile, un colto, un poeta e un filosofo.

Ho avuto il piacere di leggere le parole e le scalate di Niccolò Bulanti stampate sul suo ultimo libro, Uomo in salita, Tentativi a pedali sulle erte di casa, edito da Ediciclo e piacevolmente unite dal fil rouge della riflessione, della condivisione, del “tentativo”.

Una cosa sola non mi va molto a genio – quantomeno per come l’ho letta io – in quella che è davvero una scorrevole e saggia lettura, con ampie riflessioni e l’apertura mentale di chi in bici non muove solo le gambe ma anche la testa. Vi è una prefazione che a mio personalissimo avviso rischia di distogliere l’attenzione dalla profondità delle riflessioni raccolte nel libro del Bulanti. Si parla di salite, e ne parla Enrico Camanni, alpinista. E l’esaltazione dello scalatore a discapito del ciclista di pianura è lo scomodo paragone attorno a cui ruota la breve prefazione. In un contesto così puro come il semplice movimento delle pedivelle e della spinta sui pedali, del sinuoso e ripetitivo rotolare delle ruote (tassellate o liscie esse siano) su una strada, mettersi a paragonare le “tipologie” di pedalatori e decretare chi più di altri abbia testa, crampi e gambe diverse mi pare una semplificazione manicheista ed eccessiva, che non aggiunge nulla all’opera che invece si rivela di ampio sguardo, riflessiva, accogliente nei confronti dei movimentatori di ruote tutti.

Perché, allora, fare dei distinguo basati sul gusto della pedalata, in pianura VS in salita? Il Camanni ha mai provato la resistenza mentale di affrontare centinaia di chilometri lungofiume, lungo un argine, su uno sterrato fatto di sassi e buche? Perché, mi chiedo e chiudo, promuovere la divisione e perpetrare l’esaltazione di chi sfida l’altezza denigrando chi invece, per un motivo o per l’altro, sempre pedala, magari tanto e forte e a lungo, ma anche no, ma sceglie il piano orizzontale per sfidare e sfidarsi?

Detto questo, ti lascio alle 10 domande poste al buon Niccolò per conoscerlo meglio, e ti invito ad acquistare e goderti la sua opera, Uomo in salita, per immergerti nel freddo vento della Bonette, cercare il sole che sorge a Tartano, scorgere Moby Dick tra Stelvio e Umbrail, ascoltare il richiamo del San Marco, misurare in millimetri il Mortirolo e molte altre esperienze invitanti.

Offerta
Uomo in salita. Tentativi a pedali sulle erte di casa
  • Editore: Ediciclo
  • Autore: Niccolò Bulanti , Enrico Camanni
  • Collana: Biblioteca del ciclista

Sinossi dell’opera Uomo in salita

«Quanta tempra del carattere, quanto vigore fisico, lasciamo nel piatto sfuggendo la salita? Chi potremmo essere se la capissimo? La salita rende umili. Solo sottomettendosi a essa si lascerà percorrere». La globalizzazione allarga i confini del mondo omologando, appiattendo. Invece Niccolò Bulanti ha deciso di rimpicciolire gli orizzonti, tornare a socializzare con il locale, per darsi l’opportunità di rileggere ciò che ci circonda e riconnettersi, così, alla vita. Per questo ha percorso in bicicletta, in solitaria, le più impegnative e simboliche salite valtellinesi. In piedi sui pedali ha scoperto la bellezza di luoghi unici, di scorci dimenticati, le emozioni e le sensazioni, le idee e i punti di vista. Perché la strada non finisce, con la salita, ma inizia. Prefazione di Enrico Camanni.

Intervista a Niccolò Bulanti, che ci racconta di sé e dell’Uomo in salita

Uomo in salita, quando e perché hai iniziato ad andare in bici?

La bicicletta nella mia famiglia è un mezzo d’elezione. Siamo sempre stati in bici. Mio padre lavorava a quaranta chilometri da casa e andava al lavoro usandola. In terza media i compagni hanno avuto il motorino, io una bici. Tuttavia nel corso degli anni, sebbene la bicicletta sia sempre rimasta presente per lo spostarmi nelle faccende quotidiane di non tanto ampio raggio, non ha rappresentato certo una passione. È stato invece con il Covid e con la serrata sanitaria che ho avuto modo di riconsiderarla: in un frangente nel quale tutto concorreva a condurci a una sorta di immobilismo, fisico e non, io mi sono detto che qualcosa, affinché non mi cristallizzassi innanzi al televisore che non ho, avrei dovuto fare. Ebbene, ci veniva concesso di spostarci nel Comune, poi nella Provincia. Io vivo in provincia di Sondrio, terra di salite, e allora ho pensato di cogliere l’occasione per (ri)tornare alla mia terra, salendola – è il caso di dire, in bicicletta. Ho messo insieme quindi un elenco di tredici salite, tra quelle più blasonate del ciclismo mondiale, Stelvio, Gavia, Mortirolo, e quelle invece che portano a paesi mezzo spopolati nelle nostre valli limitrofe. A unire questi due mondi apparentemente agli antipodi, la salita, la sua dignità.

Quando hai scelto la salita al posto della pianura? Perché?

Appunto in questo frangente epocale. Anzi, da ragazzino, quando uscivo per qualche giro in bicicletta con mio padre, detestavo la salita e non passavano cento metri che non domandassi il fatidico “quanto manca?”. Perché la salita? Perché la nostra provincia è salita. In senso lato, non soltanto per quanto riguarda la sua morfologia e quindi le sue strade. Salita come sacrificio? No, salita come tenacia. Quella che avevano i contadini di queste terre in pendenza. I bambini che scendevano a piedi anche in inverno al fondovalle per andare a scuola, altrettanto. Così come le donne che si caricavano delle loro spese tornando ai paesi in costiera o in valle lungo mulattiere o sentieri. Accettare la salita è vivere, è procedere alla giusta velocità, è sapere con assoluta certezza che si giungerà alla fine della salita stessa. Perché, se mai ho imparato qualcosa dalle storie e dagli esempi dei vecchi, è che qui la salita è l’unico modo di intendere la vita. Un modo di intendere che si scontra con quello più in voga, direi godereccio, artificiale e finanche artificioso, in cui tutto appare in discesa, o al massimo come una bella strada litoranea di quelle a fare da sfondo all’ennesima pubblicità di automobili. Ecco, l’ho detto, quella è apparenza, la salita è realtà. Andare in salita, quindi, rappresenta per me il rifuggire la banalità imperante della pianura colonizzata, resa tanto agevole da mortificare, da svilire. Ora, quando inizio i primi metri di una salita con un sospiro di sollievo, mi dico: è finita, relativamente alla pianura. E non chiedo più, come un tempo a mio padre, quanto manca. Nemmeno al contachilometri, che non campeggia sul manubrio della mia bicicletta.

Curidùr: elabora questo termine e perché questi non ti salutano?

Curidùr è il termine dialettale che dice ciò che in italiano è il corridore. Quindi qualcuno che ha a che fare con il mondo delle corse. Mia nonna chiamava così le torme variopinte di ciclisti che la domenica passavano sotto il suo balcone. Nel mio libro ho voluto definirli così perché è sia un ricordo di mia nonna, sia un modo per tratteggiare un linguaggio ironico che fa la sua comparsa nelle pagine del libro – senza che questa ironia si dimentichi di colpire proprio chi scrive e il suo pittoresco modo di andare in bicicletta. Il curidur è parte di una confraternita. Una confraternita con i suoi riti, la sua liturgia, i suoi costumi e i suoi tempi. E io che non conosco e non voglio conoscere questi aspetti, io che non vesto il costume scenico adatto e potrei apparire più come uno che quella bici da corsa nera l’ha rubata. E loro, i curidur, si accorgono della mia indebita intrusione. Rappresento probabilmente l’aberrazione, l’elemento di disturbo nell’omologazione e nell’ortodossia ciclistiche. Mi guardano, alle volte. Ma non mi salutano. Quante volte mi è capitato che al mio saluto essi non abbiano nemmeno badato. Alle volte li guardo scorrere via, molto più veloci di me, intenti forse a fondare nuovi personalissimi record sui quali erigere un’autostima di carta e mi sfugge un sorriso.

Ciclista, curidùr, scalatore, pedalatore, cicloviaggiatore: chi sei?

Non lo so. Sono uno che occasionalmente va in bicicletta. Sono quello che ha salito la sua provincia e ne ha scritto. Sono quello a cui mancano otto valichi per terminare tutti quelli asfaltati che sul continente europeo scollinano oltre i 1.850 metri. Non mi resta che rifarmi a un certo pragmatismo, privo di poesia, ma in ultima analisi mi concedo al gesto che mi rappresenta sulle strade: il pedalare. Sono un pedalatore. Un pedalatore solitario. Scalatore è del resto pretenzioso per me. Ciclovaiggiatore mi pare troppo lungo, forzato, in un momento in cui il concetto di viaggio è tanto abusato che il viaggiatore oramai è anche colui che se ne va a Disneyland Paris per il fine settimana. Bisogna avere rispetto del viaggio. Va avvicinato con coscienza e soprattutto con pudore. Un pedalatore, sì.

Forse un pellegrino. Se ognuna di queste salite europee (e non) ha rappresentato una stazione nell’accezione che essa ha all’interno di un pellegrinaggio. Quante volte il mio intimo si è scosso tra tutte queste vette. Magari di notte. Magari passando sopra le slavine con la bici in spalla e sotto la luna, in un blu acqueo della notte del Passo Susten ancora chiuso. Tornare al paese di origine del mio cognome pedalando con mia figlia di sei anni nello zaino. Non vado a spasso. Non mi diverto. Vado per incontrarmi. Forse è questo che il pellegrino fa mentre si mette in strada per condursi al suo dio che non troverà che in se stesso.

Raccontaci della tua bicicletta e che cosa rappresenta per te questo mezzo.

La mia bicicletta… sono due!
La mia bici da corsa è stata messa insieme da due bici da corsa. Come se non esistesse, o meglio, come se non dovesse esistere. Un po’ come me mentre la pedalo. Non dovrei essere per le strade per come sono per le strade. Sono l’aberrazione, no? Ecco, la mia bicicletta è come me. Avevo due bici di scarso valore. Le ho smontate fin dove potevo e le ho fatte rimontare dal mio meccanico. Poi una verniciata da un conoscente che ha una verniciatura ed ecco questo modello totalmente nero, che pare un segno grafico “do”, una nota musicale. L’ho ribattezzata Gagarin. E vi ho apposto questo nome sulla canna. In rosso. In cirillico. Di questi tempi potrebbe bastare perché desti sospetti di simpatie impraticabili – una signora russa infatti mi ha chiesto una volta come mai ci fosse scritto Gagarin sulla mia bicicletta: la sua gioia quando ho saputo argomentare il motivo parlando di Jurij. A me non importa, del resto di cosa si possa pensare. Forse non penso nemmeno io. A me importa invece di Gagarin, di ciò che ha rappresentato. Un povero, un figlio del popolo che un mondo estinto ha saputo mettere in un avanzato congegno per raggiungere luoghi mai raggiunti prima dall’uomo. E la mia bicicletta è così, una povera bicicletta che forse non varrà 300 euro che mi conduce dove mai mi sarei atteso. Sì, ci si crea un legame anche con le cose. Specialmente quando, per largo uso, quando per lungo tempo, ci accompagnano tanto da diventare profondamente nostre. Poiché ci pare che nelle condizioni nelle quali siamo abitualmente visti con esse risulta impensabile vederci con un corrispettivo. Sono appena rientrato dal Sud America e da Rapa Nui, dove ho pedalato due biciclette prese a noleggio. Avvertivo, in un qualche modo, la mancanza di Gagarin. La pensavo mentre pedalavo con delle sconosciute.

Delle 14 salite proposte, quale ti ha segnato di più, quale ti ha insegnato di più? Perché?

Innanzitutto queste 14 salite presenti nel libro sono in realtà 13+1. Il distinguo è d’obbligo qualora si consideri il titolo, anzi il sottotitolo del volume: Tentativi a pedali sulle erte di casa. Quindi tredici sono le salite qua e là nella provincia di Sondrio – in Valtellina e Valchiavenna, raccolte nel libro. Una, l’unica, fuori da questo contesto, è la salita alla Bonette, in Francia. Che ho voluto inserire – la stesura del libro oramai terminata, per presentare al lettore l’intenzione di quel proposito europeo di cui si è accennato sopra. Ovvero salire ogni valico asfaltato del continente europeo che conduca oltre i 1.850 metri – quota trampolino rappresentata dal Mortirolo. E allora, ho pensato, quale salita proporre se non la strada asfaltata più alta d’Europa, la cima della Bonette a 2.802 metri, che sorpassa di tanto poco il nostro Stelvio?

Quale mi ha segnato di più tra le 13 + 1? Mah, direi probabilmente lo Stelvio affrontato di notte. Il perché, se siete curiosi, lo troverete nelle pagine del mio libro, Uomo in salita. Quale invece mi ha insegnato di più: non credo di averne una in particolare. Io sto andando a scuola, sto imparando. E ogni salita è una maestra diversa, una lezione differente. Non si smette di imparare perché la salita non smette di insegnare proprio perché non smettendo la salita di insegnare permette di seguitare a imparare. Quindi devo affermare che è la salita – in senso lato, ad avermi insegnato di più. Di più sul mondo e di più sul mondo che mi porto dentro, sul mondo che io sono.

Uomo in salita, Conosci qualche cicloviaggiatore che ispira o ha ispirato le tue avventure verticali?

No. Anche se è vero che per gioco, sempre che abbia un lumicino di energie da spendere a quel punto, a pochi metri dal “traguardo” uso alzarmi sui pedali in un tentativo maccheronico di scatto a onorare la memoria di Marco Pantani. Ma è niente altro che un gioco senza pretese che alla fine strizza l’occhio a quella voglia di giocare di quel noi bambino. Per il resto, a trentacinque, quarant’anni, non ho più l’età per pensare di dover emulare qualcuno o di muovermi su ispirazione di altri. La geografia mi ispira, il bisogno di muovermi, il rapporto che ho con le mappe geografiche. Vero è che come posso non pensare, quando su alcune salite simbolo o meno, ripasso con le mie ruote su un asfalto calcato da quelle di mio padre anni prima, a tutta la strada che ha fatto lui prima di me e con nessun esempio innanzi a lui? E quando invece mi ritrovo su alcuni passi che lui mai ha salito e che, oramai, non salirà più per sopraggiunti limiti anagrafici, è come se un po’ salissi anche per lui. Per completare ciò che non ha potuto ma che avrebbe meritato ben più del sottoscritto per la sua insanabile passione ciclistica, che io non posseggo, che non mi possiede.

Conosco alcuni cicloviaggiatori, sì. E hanno tutto il mio rispetto. Sono di quelli che ti ritrovi mentre sei per strada anche tu. Ma tu torni a casa la sera, questi sono in giro da mesi. Io proporrei per queste figure, che a differenza del curidur nostrano hanno grande creanza per il saluto, per l’incontro, al premio Nobel per la pace. Vanno, nonostante tutto, con la sola forza del loro cuore, indifesi su una bicicletta. Affrontano il mondo immenso con due ruote e tre o quattro tubolari saldati insieme. Non è la loro fiducia nel prossimo, nel futuro; non è il loro ottimismo; non è la loro condizione di estrema vulnerabilità il più potente grido che rivolgono a ogni terra attraversata? Un grido che è di per se stesso un saluto di pace, la volontà di riconoscere l’alterità del prossimo.

Seguo alcuni di questi personaggi dai loro profili Instagram. Fa bene vederli. Uno l’ho conosciuto personalmente e in questo momento è impegnato a raggiungere il Nepal con la sua bicicletta dopo aver lasciato Milano a febbraio, se ben ricordo. Sono scelte di vita. Evidentemente non per tutti. Ed è giusto sia così. Mando loro idealmente un grande abbraccio.

PS. Se posso contraddire il tuo utilizzo del termine “avventure” adoperato in relazione alle mie salite: è un termine troppo grande per me. Io soltanto vado in salita, finché la salita finisce. Dove? In Europa, il più sicuro dei continenti e il più servito. Non posso davvero permettere che si parli di questo modo di andare come di una avventura. Mancherebbe di rispetto a chi ho citato poc’anzi e a tutti quelli, celebri o meno, che hanno contribuito a portare l’immaginario dell’uomo comune almeno un poco più in là.

Che lettura consiglieresti a chi vuole iniziare con dei viaggi in bici, oltre la tua opera, Uomo in salita?

Rispondo di getto: i volumi di Giorgio Bettinelli che ha girato il mondo in… Vespa! Il mezzo può essere, fino a un certo punto, secondario. Ma fondamentale rimane lo stimolo di andare. La meraviglia dello scoprire e dello scoprirsi tramite l’esperienza del viaggio. L’entusiasmo, quell’ebbrezza anche infantile e adolescenziale, che concorre a mantenerci vivi. E Giorgio Bettinelli, con la sua fantastica penna, credo possa far venire la voglia d’andare, di provare a condursi sempre un poco più in là.

Che consiglio daresti al te stesso di quando iniziasti con la bici?

Nessuno. Ho solo un consiglio come regola aurea, datomi da mio padre: quando affronti un tornante, prendilo largo, che hai occasione di rifiatare. lo penso sempre, è una necessità.

Autore non solo di un libro di salite in bici, ma anche poeta e filosofo. Qual è stato il tuo percorso di studi e di autore?

Mah, poeta e filosofo. Forse il primo deve un po’ essere il secondo sebbene il secondo non è detto abbia le qualità del primo. La prima qualità del poeta, mi disse qualcuno, è quella di meravigliarsi, di provare stupore. La parola, la capacità d’adoperarla viene dopo. Anzi, non è nemmeno detto che arrivi. È probabile vi siano miriadi di poeti che non hanno mai scritto un verso. La bilancia è una cosa seria. Bisogna pesare il giusto. Né togliendo né aggiungendo la si onora. Per questo dico che sì, adesso, a questa età e con un poco di storia alle spalle lo posso sostenere, sono un poeta. E non è detto che sia un privilegio di cui ci si possa gingillare considerato il mondo che abbiamo: molto spesso è un fardello vederlo, quel mondo, non per come è ma per come dovrebbe essere. Perché il poeta è anche questo che fa: ricostruisce, scambia gli addendi nella somma, mette in verticale l’orizzontale, riduce l’orizzonte e amplifica il micron. Il poeta non si laurea all’università e non si forma a scuola. La sua è una condizione e non un titolo.

Filosofo non saprei. Viceversa mi pare un titolo sempre appannaggio di professori, studiosi, comunque esperti di filosofia, sia essa classica, orientale o chissà cosa. Io non ho mai letto un libro di filosofia, se non qualcosa di Marx ed Engels, di Rousseau e di Thoreau. Non conosco l’opera dei filosofi. Non ho fatto né corsi universitari, né studi superiori di filosofia. Andando per le strade – parliamo di bicicletta in fondo no? – la mia è una semplice filosofia di strada. Quello che posso avere imparato, quello che posso aver capito, questo diviene la mia filosofia con cui affrontare il quotidiano. Non ho mezzi per poter pretendere altro. Io ho il diploma di Liceo Artistico. Sono grafico pubblicitario ma non ho mai esercitato. La pubblicità è una truffa e una manipolazione di massa. Io lavoro in ospedale. Preferisco credere di mettere in ordine un corpo in disordine con le mie basilari cure alla persona che apportare disordine all’ordine del mondo per giunta con le mie capacità creative, così le chiamano. Ho sempre scritto. O meglio, l’ho sempre trovato spontaneo. Non ho mai steso una brutta copia di un qualsivoglia tema. Nel 2012 ho esordito con una raccolta di poesia, “Fiamme in fiore”, a cui ora guardo con una certa tenerezza: erano tentativi di fare poesia, avevo ancora da capire qualcosa. Non che ora sia arrivato, beninteso. L’anno successivo con una raccolta di racconti “22 racconti ed una poesia per una ribellione gravida”.

La narrativa è probabilmente la forma di letteratura che più mi coinvolge. Nel 2021 sono uscito presso un diverso editore con un libretto di poesia molto particolare che non cito in quanto ho firmato con pseudonimo, una cosa che mi affascina molto. Con Ediciclo sono arrivato nel 2022 perché Uomo in salita era tagliato su di loro. Ho trovato una casa editrice seria, ben organizzata, con un clima cordiale e aperto. Sono stato contento. In futuro si vedrà, se mai potrò trovare un pertugio dove tentare di infilare la tanta narrativa che negli ultimissimi anni mi sta uscendo dalle dita, permettendomi la grande esperienza autodidatta di plasmare situazioni e mondi, di dire belle bugie per avvicinare la verità, come diceva Pablo Picasso.

Uomo in salita, un’opera che ispira

Noi lettori ti ringraziamo, Niccolò, per il tuo interessantissimo contributo e le tue erte, di casa e non, che hai scalato e di cui hai maestosamente parlato, per ispirarci a nuovi mondi, a nuove versioni di noi.

Leggilo, leggilo, leggilo.

Magari prendi un po’ con le pinze la prefazione.

Fammi sapere cosa ne pensi, sono curioso.

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